C’era una volta il Cin
Molti di voi saranno stati presenti quando l’abbiamo salutato per l’ultima volta. Lo stadio del rugby gremito di gente, un coro che canta gospel, voci rotte che tentano di portarne il ricordo dal mondo del rugby e da quello delle grotte; decine di bottiglie di vino, abbracci e lacrime. Un non-rito, come lui avrebbe certamente voluto. Sappiamo tutti che non era persona da benedizioni, ed è stato coerente fino in fondo, inveendo anche dal suo letto d’ospedale contro i misfatti della chiesa e di tanti suoi ministri.
Son passati alcuni mesi, ma ancora fatico a convincermi che se ne sia andato davvero. Son troppe le cose che faccio, che dico, che scrivo a ricondurmi a lui. E ogni volta che lo penso provo una gran rabbia per tutto quel che avremmo potuto ancora fare insieme e non potremo più fare. Ma la testa è piena di ricordi bellissimi, e questo aiuta.
Pochi giorni prima che lo portassi in ospedale mi capita a casa. Che stesse soffrendo non vi erano dubbi, anche se lui, come sempre nella sua vita, faceva il possibile per non darlo a vedere. Negli ultimi mesi non ci si vedeva molto, se non per questioni legate all’attività del gruppo o de La Venta, foto, carte, dati. Entra e mi dice “son soeo vegnu’ trovarte, a far quatro ciacoe, se no qua se se vede soeo quando che ghemo bisogno de calcossa”. Aveva ragione, e quella sua visita improvvisa e “inutile” è stata uno dei più bei regali che mi abbia fatto. Aveva il senso della realtà delle cose: non certo nel lavoro, dove per anni ha fatto il collezionista di tappeti, piuttosto che il commerciante, ma nei rapporti umani. Aveva una scala di valori ben precisa, e non lasciava che l’amicizia venisse annacquata o procrastinata da contingenze quotidiane, da piccole grandi necessità.
Era un grande, davvero, in tutti i sensi. Grande ed estremo. Negli ultimi anni aveva addolcito un po’ il carattere irruento (l’essere divenuto nonno per quattro volte deve aver avuto un certo effetto), ma molti ricorderanno quanto dura fosse discutere con lui. Non vi erano mezze misure, ed è anche questo a rendere inossidabile il suo ricordo. Il Cin l’ho conosciuto nella seconda metà degli anni settanta, grazie alla nascente squadra del soccorso. Erano anni fantastici per la speleologia, anni di profonde innovazioni tecniche; far parte del soccorso, ancor più di oggi, rappresentava un punto di arrivo, un riconoscimento, un motivo di orgoglio e di assunzione di responsabilità. Da pochi anni andavo allora in grotta, e quando entrai nella squadra mi trovai assieme a un personaggio di grosse e solide dimensioni, che già allora mi appariva come un riferimento per tutti. Speleologo dal 1961, era un precursore nel campo della speleosubacquea, e nel ’70 aveva partecipato all’operazione “Atlantide”, primo esperimento italiano di permanenza subacquea. Forse fu la sua indole rivoluzionaria, che trapelava da ogni sua parola e ogni suo gesto, forse fu l’atmosfera anarchica che permeava gli speleo trevigiani, fatto sta che mi piaceva molto partecipare alle riunioni del soccorso che si tenevano in Piazza del Grano, mitica sede del CISG, Centro Italiano Soccorso Grotte, come si chiamava allora. Ricordo come fosse ieri una lunga riunione in cui si discusse la necessità di modificare il nome del gruppo, incompatibile con il soccorso speleologico. Ma la sostanza era più importante della forma, e il nome fu cambiato. Erano anni di grandi trasformazioni, di invenzioni, di grande creatività; si progettavano tecniche e si costruivano materiali, si inventavano soluzioni. Un giorno eravamo in manovra al Bus del Dinosauro: scendiamo dal furgone, un Fiat 242, e iniziamo a preparare i materiali. Tutto pronto, salvo i bulloni per gli spit, che ci siamo dimenticati in sede. Un bel problema. Il Cin ci pensa un attimo, poi apre il vano motore. Saremmo scesi e risaliti sui bulloni del suo furgone, recuperati solo parzialmente e coperti di fango dopo la manovra…
Il Cin e il Bus del Dinosauro me li ricordo insieme anche per un altro motivo: deve essere stato in una delle lunghe attese sopra o sotto un pozzo che ho iniziato a fumare. Una sigaretta offerta mentre si inizia a tremare, un po’ di fumo condiviso con “Barba” come erano soliti chiamarlo gli amici del CAT di Trieste.
E il Cin di sigarette ne ha fumate proprio tante, troppe. Ricordo le stecche di nazionali senza filtro accatastate sul cruscotto del furgone, durante il viaggio verso Kara Göl, in Turchia. Nove mezzi tra furgoni e auto, la bellezza di 41 persone, sicuramente una delle prime spedizioni speleologiche italiane all’estero. Oltre al numero dei partecipanti erano da record anche i tempi di percorrenza: il Cin partiva e, da bravo autotrasportatore, guidava in continuazione, fermandosi solo per fare rifornimento. Era obbligatorio settare i timer delle proprie necessità biologiche sul carburante del furgone, oppure risolvere la cosa in corsa.
Era il 1981, e il CISG era ormai diventato Gruppo Grotte Treviso. Di lì a breve avremmo avuto la sede di Santa Bona, che negli anni a venire avrebbe ospitato centinaia di speleologi italiani e stranieri, organizzato feste, visto scorrere ettolitri di birra e di vino. Per il Cin, più che per chiunque altro, la “sede” era la seconda casa, anzi forse la prima. Un entusiasmo incontenibile, una capacità fuori dal comune di coagulare energie, di far operare tutti per uno scopo comune.
Come quando si lottò, per anni, per installare il bivacco Procopio, in Canin. Stefano Procopio era morto durante una spedizione speleo in Turchia nel 1983. Da allora il Cin, assieme agli amici del CAT, fece l’impossibile per poter dedicare all’amico scomparso il bivacco nella grande area carsica. Non è qui il caso di ripercorrere tutte le tappe di quella lunga battaglia burocratica (il bivacco venne installato nel 1989) ma un ricordo lo voglio lasciare. In quel periodo, pur lavorando insieme per il bivacco, tra il Cin e il sottoscritto i rapporti non erano buoni. Avevamo litigato aspramente, e praticamente non ci parlavamo da un anno. La cosa pesava come un macigno su entrambi, ma l’orgoglio ci impediva di smettere di fare i bambini. Il giorno dell’inaugurazione, dopo essere saliti al Foran del Muss con carichi inenarrabili di cibo e di vino, ci ritrovammo entrambi, forse casualmente, forse no, sotto il bivacco, per sistemare le taniche di raccolta acqua. Lavorammo un po’ in silenzio, poi incrociammo lo sguardo. Ci abbracciammo piangendo, senza una parola. Qualcuno, da fuori, chiese se andava tutto bene. Sì, andava tutto bene.
E’ tutto così vicino, così limpido. Lo ripenso spesso sui tepui, nelle acque rosse del Rio Pintado o a far da guardia alla dispensa, nella ciclopica (anche per lui) Panaioran Chamber di Langun Cave, a Samar, o su un banca che scivola lento nelle acque calme del St. Paul, a Palawan.
Lo ripenso davanti al computer, a scansionare dia per La Venta, ad archiviare dati del passato per i giorni a venire. E’ tutto così limpido, così vicino.
Se tornasse a trovarmi, se apparisse col suo vecchio furgone sulla strada sterrata di casa mia, non sarei stupito. Solo immensamente felice.
C’era una volta il Cin.
Il Cin c’è ancora.